Alessandra è una psicologa dello sport Laureus Italia a Milano. Ale è una persona speciale, e parlarvi di lei ci aiuta a spiegarvi il valore delle nostre figure educative. Per farlo, però vogliamo partire dall’epilogo di un’altra storia, da un’immagine: quella di Umberto.
Umberto è un bambino di 8 anni, di origine rom. È in macchina con Alessandra e sta tornando a casa, nel campo in cui vive con la sua famiglia. È affacciato al finestrino del sedile posteriore con il vento che gli scompiglia i capelli ancora un po’ sudati, mentre mostra al mondo la medaglia che ha vinto nel torneo di fine anno. Sorride, cercando lo sguardo della gente in strada. Sorride e grida:
“Io ho vinto, io oggi ho vinto!”.
Il suo è un urlo di gioia che arriva finalmente a spazzar via tutta la rabbia che ha dentro. Umberto ha iniziato a giocare a basket con suo fratello nella sua scuola del quartiere Corvetto, a Milano. Alessandra lo descrive come un bambino insofferente fin da subito, sboccato e molto fisico. “Non era iperattivo, il suo non stare fermo era un sintomo di insofferenza. Entrava in campo e cominciava a tirare il pallone contro di noi e contro i compagni, con una violenza pazzesca. Se provavi a calmarlo urlava ancora di più e non c’era nulla che lo sedasse.”. Alessandra gli sta dietro, lo osserva, cerca di comprendere quali siano quelle emozioni negative che non è in grado di verbalizzare. Le prime settimane riesce solo a rincorrerlo fra i corridoi della scuola mentre scappa dal campo. Un giorno lo raggiunge in un’aula e lui, per infastidirla e mandarla via. comincia a stridere il gesso sulla lavagna. Alessandra rimane, sopportando il rumore fastidioso, fino a quando Umberto si calma. “Gli proposi di fare un disegno e lui disegnò la classica immagine di una montagna, con un torrente che vi scorre al centro, gli alberi sui lati e un omino in cima. Umberto mi disse che era lui. Mi disse: «Quello sono io, così mi butto giù. La mia vita non mi piace, sono stufo».
Alessandra non riesce ad accettarlo, sa di poter fare qualcosa. Spesso sente ripetersi che bambini così non possono cambiare, che con loro si può agire solo con forza e con rigore, ma lei è convinta che ci sia un’altra via, un altro modo per restituirgli fiducia e sorrisi. E pian piano qualcosa inizia a cambiare.
Un giorno Umberto è più agitato del solito. Diventa ingestibile appena dopo un solo giro di campo. Alessandra lo raggiunge per parlarci, ma lui le dice una parolaccia e scappa via, chiudendosi nello stanzino dei palloni. Lei si avvicina, bussa, ma non riesce ad aprire la porta. Poi appoggia la schiena contro il muro, si lascia scivolare a terra e gli sussurra «Però non è giusto». Passa qualche secondo e Umberto apre la porta quel tanto che basta per farsi guardare negli occhi, si affaccia e le risponde: «Scusami Ale, non volevo sbatterti la porta in faccia, però sono un po’ arrabbiato. Mi lasci da solo un paio di minuti e poi torno?». Poi richiude la porta, questa volta senza sbatterla; dopo 5 minuti torna in campo sorridente, e le chiede un pallone.
“È stato quello il momento in cui ho capito che qualcosa era passato davvero. Io non l’ho rimproverato, gli ho solo detto “non è giusto”, non ho usato la forza, la mia autorità. Alla fine ti accorgi che la pazienza, l’ascolto, il dialogo, la comprensione pagano. Ed è questo, per me, ciò che può fare una figura educativa Laureus. Quel bambino oggi è cresciuto, sta finendo le medie, ma viene a cercarmi, mi chiama dal telefono della madre e mi chiede se può venire a giocare a basket.”
Il basket per Umberto era diventato qualcosa di più. “Io l’ho inseguito miliardi di volte, lo ascoltavo. Secondo me ha avuto un senso, è servito a colmare in parte delle lacune, dei bisogni latenti insoddisfatti, una mancanza di ascolto e di considerazione. I bambini hanno bisogno di qualcuno che gli dica che sono bravi, e che se non ce l’hanno ancora fatta è sempre il momento buono per riprovarci”.
In questo lo sport è straordinario, perché ti consegna delle regole non scritte, delle certezze, una disciplina non verbale. Alessandra ha dedicato allo sport tutta la sua vita e lo sa benissimo. Ha iniziato da piccola a fare pattinaggio sincronizzato su ghiaccio, e in breve tempo è diventata la sua attività principale, semplicemente la cosa più importante, come dice lei. Ora che ha appeso i pattini al chiodo, a 29 anni, ha deciso di mettersi a disposizione degli altri, di aiutare tanti bambini a ritrovare fiducia in sé stessi, ad accantonare problemi più grandi di loro grazie a “quel meraviglioso contenitore che è lo sport”. Un lavoro grande per restituirgli i bisogni della loro età, il quotidiano. Le piccole cose, appunto. Come un bambino affacciato a un finestrino che esibisce la sua medaglia, sorride, e grida: “Io oggi ho vinto.”