Perché si diventa allenatori?
Una vocazione, l’opportunità di un piccolo guadagno, l’età non più idonea per continuare a giocare. Oppure il caso. Oppure una rivincita.
Marco è un allenatore di basket al suo secondo anno di progetto Laureus e allena i bambini della scuola elementare I.C. Sangallo di Ostia.
E’riuscito a fare della sua passione il proprio mestiere, ma questo è avvenuto attraversando non poche difficoltà.
Ci racconta che ha iniziato a giocare a basket all’età di 5 anni – ora ne ha 38 – descrivendosi come un bambino non bravissimo, ma che giocava con grande passione ed impegno perché lo divertiva e lo rendeva felice.
All’età di 17 anni la società lo relegò in una squadra di seconda fascia che nessuno voleva allenare perché ritenuti troppo scarsi. Si alternarono vari coach ma nessuno si appassionò a loro.
Queste situazioni portarono Marco ed i suoi compagni a non sentirsi considerati e soprattutto a non avere un adulto di riferimento che potesse credere in loro.
Questa fu una ferita che trovò il suo punto più doloroso quando nessun allenatore si presentò per accompagnare la squadra in una trasferta.
Soli, rifiutati.
Marco aveva 17 anni e decise di chiudere definitivamente con quel mondo che amava, ma che lo aveva deluso.
Chi vive nello sport sa quanto questo episodio non sia raro. Consegnare al nulla un adolescente, dopo anni di impegno nelle giovanili, è un fatto di una profonda irresponsabilità. Il tema del drop out sportivo “scelto” dai ragazzi per una richiesta tecnica troppo alta che non si riesce a raggiungere, oppure subita per un taglio esplicito verso i meno dotati e talentuosi della squadra, è grave ed attuale.
Il modello sportivo concepito come un imbuto che dovrebbe far passare esclusivamente verso lo sport adulto gli atleti più dotati, abbandonando sulla strada gli altri, è un sistema cinico destinato all’impoverimento giovanile.
Per fortuna, nel caso di Marco, il caso ci mise lo zampino.
Dopo un anno di pausa, un allenatore di basket che si ricordava di lui, giocatore attento e caparbio, gli chiese di aiutarlo con la sua squadra di bambini.
Con questa opportunità scoprì quale era la sua vocazione: voler diventare per i bambini quell’allenatore, quel riferimento che lui non ha mai avuto.
Utilizzò la sua esperienza frustrante di ragazzo per fondare una squadra dove il rispetto per il compagno dovesse diventare sacro, affinché tutti potessero sentirsi parte di un insieme a prescindere da qualsiasi variabile tecnica e personale.
Dice Marco, quando gli chiediamo del perché ha aderito al Progetto Laureus: “Ogni bambino ha diritto di divertirsi e fare sport. Tutti, dal più bravo al meno bravo, dal più ricco al meno ricco, a chi vive condizione di disagio familiare e scolastico […] ciò che mi colpisce della fondazione Laureus è che investe nello sport dei bambini che vivono situazioni particolari proprio perché sono la categoria più debole e indifesa”.
Nella sua amata Ostia c’è davvero bisogno di Laureus.
C’è bisogno di un modello di fare sport dove educazione e agonismo, attenzione alla persona e l’attenzione all’atleta, si tengano per mano, strette strette senza mai lasciarsi andare, soprattutto quando l’arrivo dell’adolescenza già di per sé allontanerà i giovani dall’occhio vigile degli adulti.
Marco conclude raccontando dei progressi della squadra che ha costruito insieme alla fondazione Laureus, sia sportivamente ma soprattutto per lo spirito che è riuscito ad infondere nei ragazzi che si cercano, che dialogano con lui, che si ritrovano in palestra che perseguono sfide alle quali dedicare la loro energia.
Marco ci ha insegnato che talvolta facendo sport si può cadere, ma la forza con la quale ci rialziamo può cambiare l’esito della partita.